Le corna del Marchese

Ercole Malaspina Signore di Fortunago

Ercole Malaspina era uno dei figli di Cesare Malaspina, del ramo dello Spino Fiorito, che aveva acquistato il feudo di Fortunago nel 1546 da Bergonzo Botta.

Ammalatosi Cesare Malaspina decise, il 25 ottobre 1549, di lasciare i propri beni ai due figli maschi Giuseppe ed Ercole. Secondo una clausola del testamento stesso, Ercole avrebbe avuto la sua parte di eredità solo se nel frattempo gli fosse stato revocato il bando di espulsione dallo Stato di Milano. In caso contrario l’eredità di Ercole sarebbe passata direttamente ai suoi figli maschi. La malattia di Cesare ebbe un decorso molto rapido ed egli morì alla fine del 1549. Morto il padre, i due fratelli non procedettero subito alla divisione dei beni. Solo nel 1561, dopo dodici anni di dominio indiviso, a Giuseppe furono assegnati i feudi di Malgrate e Godiasco, mentre ad Ercole toccarono Oramala e Fortunago.

Il grave fatto di sangue che poteva costare il marchesato ad Ercole si svolse nelle vicinanze di Rivanazzano il 13 marzo 1549. Non si trattò di un episodio fortuito, in quanto sembra che tra i Malaspina e la famiglia Sforza di S. Flora, con cui era imparentato Aurelio Panigarola, il nobile ucciso da Ercole, esistesse una vecchia ruggine, legata alla rivendicazione di certi diritti feudali relativi al territorio di Val di Nizza.

L’episodio in questione si svolse in questi termini: Aurelio Panigarola andava a caccia di caprioli nel territorio di Rivanazzano, Ercole Malaspina, con alcuni compari, lo raggiunse fingendo di volerlo accompagnare; in realtà il suo scopo era quello di provocare il rivale per dargli una lezione. La situazione precipitò quando Ercole lo accusò di insidiargli la consorte, apostrofandolo con la frase, riportata negli atti del processo: “Vieni qui, tu hai dimandato da chiavar a mia moglie”; il Panigarola negò decisamente, ne nacque comunque un diverbio e dalle parole si passò, presto, ai fatti. Il marchese Malaspina, spalleggiato dai suoi bravi, ebbe presto la meglio; Aurelio Panigarola fu percosso e riporto contusioni alla testa e al collo. La violenza dei colpi fu tale che egli non si riprese dalle ferite, morendo trentaquattro giorni dopo l’aggressione. Almeno inizialmente, l’intenzione degli aggressori non doveva essere quella di uccidere, anche se l’agguato era stato preparato con cura. Il malcapitato era infatti stato colpito con tredici colpi di alabarda, l’arma però era stata utilizzata come un bastone e non di punta, a guisa di una lancia; la vittima infatti presentava solo contusioni, per quanto gravi, e non ferite da taglio. Resta comunque la gravità del fatto, chiaramente premeditato; Ercole ed i suoi complici furono chiamati a comparire davanti al podestà di Pavia per rispondere dell’omicidio. L’appartenenza ad una potente famiglia lo salvò, probabilmente, da una dura condanna; gli fu comminata una multa di cinquecento scudi e dovette lasciare lo stato di Milano. Qualora fosse stato catturato nel territorio milanese sarebbe stato decapitato ed i suoi beni confiscati. L’efficacia del bando non fu duratura, l’anno successivo egli ottenne la grazia dal governatore dello stato; poté quindi rientrare nei suoi feudi e riabbracciare i propri figli, uno dei quali Pietro Francesco, pur molto giovane, si era reso a sua volta responsabile di un omicidio. Come si vede a quei tempi la nobiltà era abituata a regolare da sola i propri conti in sospeso. Questa baldanza era anche dovuta al fatto che la giustizia del tempo era molto elastica e le pene erano, in certi casi, puramente simboliche o comunque di breve durata. Nell’episodio precedente fu celebrato il processo, viceversa per altri omicidi, commessi nella giurisdizione di Fortunago, le indagini non approdarono a nulla, pur essendo noti gli assassini. Il podestà, che si occupava delle infrazioni alla legge, era nominato dal feudatario e, all’occorrenza, poteva chiudere un occhio sulle intemperanze del suo datore di lavoro o dei suoi bravi.

Tra il 1558 ed il 1569, Ercole si mise al servizio della Repubblica di Genova, combattendo nella guerra contro la Corsica; comandava, con il grado di colonnello, due compagnie di soldati. Rientrò poi nelle sue terre, dedicandosi all’amministrazione dei suoi feudi e visse, con la moglie Emilia Noceti di Bagnone, nel castello di Pozzolgroppo.

Uno dei problemi che dovette affrontare era la presenza di banditi nei territori della valle Staffora e della valle Coppa. In una lettera del 1576 egli denunciava la presenza di malfattori, che rubavano e commettevano omicidi nei suoi feudi e pertanto chiedeva alle autorità spagnole di poter circolare armato d’archibugio e scortato da uomini anch’essi armati. La presenza di banditi nei feudi malaspiniani perdurò ancora per anni e in una lettera del 1583 il figlio di Ercole, Pietro Francesco, ne dava nuovamente notizia alle autorità spagnole.

Ercole Malaspina fece testamento il 5 agosto 1581, nominando eredi i propri figli, con l’eccezione di Cesare che lo aveva gravemente offeso. A Florio Malaspina, che, era bandito dallo Stato di Milano, come già era accaduto al padre, all’epoca del testamento di Cesare, toccò il feudo di Fortunago. Non si conoscono i particolari del grave atto di violenza per cui Florio fu bandito dallo Stato di Milano. Il confino durò comunque poco, perché egli riuscì a tacitare la famiglia dell’offeso con un congruo indennizzo. La denuncia a suo carico venne ritirata ed il bando revocato, cosicché egli poté rientrare nei propri feudi, che comprendevano Fortunago e le sue pertinenze.

Luigi Elefanti